
Racconto presentato al concorso Cisl - Prosa del lavoro 2020 e arrivato tra i primi tre vincitori (in attesa di verdetto).
Una baracca tirata su con materiali di fortuna recuperati nella discarica poco lontana, è ciò che Martina chiama casa. Vive lì da quando è nata dieci anni fa.
Calda d’estate, a causa delle onduline metalliche che compongono gran parte del tetto, e fredda d’inverno per lo stesso motivo. L’umido che i pannelli di legno non riescono a trattenere, è di quelli che penetrano nelle ossa, e il piccolo braciere di fortuna, alimentato con pezzi dello stesso materiale verniciato, trasmette solo una sensazione effimera di calore. Oltre a rendere l’aria satura di fumo e insalubre. Tutto il suo mondo è lì, tra fango e polvere, degrado e sporcizia. Là , dove la vita finisce all’imbrunire, illuminata da piccole torce e da qualche fuoco acceso dentro bidoni di metallo, anch’essi scarto di una vita precedente.
Figlia disconosciuta di uno Stato che ne ignora l’esistenza e figlia di genitori relegati ai margini di una società come appestati, spesso visti come un fastidio di cui liberarsi. Martina ha un nome, ma ufficialmente non è mai nata; i registri dell’anagrafe non hanno una pagina intestata a lei. Troppo complicato per i genitori comunicare una residenza e spiegare la loro presenza all’interno di quella città nascosta, fatta di altre decine di baracche abitate da fantasmi come lei.
Lunghi boccoli castano chiari le accarezzano spalle minute; due occhioni, che ricordano il colore del mare, frugano dentro l’anima quando fissano altri visi. La tristezza che aleggia sul suo volto non lascia scampo, a chi per sbaglio incrocia il suo sguardo orfano di spensieratezza. Il suo silenzio, figlio della solitudine, lascia indifferenti i genitori, troppo impegnati a convivere con la rassegnazione per una vita ormai persa.
Le rare volte che calpesta le vie della civiltà rimane estasiata dalle insegne luminose dei negozi, dai fasci di luce dei lampioni cittadini; avanza lentamente con gli stessi movimenti di chi assiste a una partita di tennis, subito esortata a darsi una mossa dagli adulti che la accompagnano. È un vagare in un mondo che non le appartiene, durante le incursioni notturne alla ricerca di qualche avanzo fuori dai ristoranti o di qualche busta di indumenti fuori moda, lasciati accanto a cassonetti maleodoranti.
Come altre mattine, adagiata su un giaciglio di fortuna fatto di cartone e coperte logore, stringe tra le mani una copia logora di Hänsel e Gretel, unico barlume di innocenza svanita. Conosce a memoria ogni singola immagine, sfiorata dalle piccole dita a ogni risveglio, ma ne ignora le parole che raccontano il significato. La scuola non ha mai reclamato la sua giovane mente da educare. È incuriosita e affezionata a quei due fratellini ritratti, che troppo facilmente associa a lei e al fratellino di otto anni, ancora addormentato di fianco a lei. Osserva quella casa nel bosco, la vecchia signora che li accoglie in una casa fatta di dolci e marzapane, crudele stratagemma e triste metafora della sua realtà .Â
Ancora infreddolita dalla notte invernale, con gli occhi sporchi di un sonno innocente osserva i pochi metri quadri che la proteggono. Sopra una cassetta di plastica a fianco della tavola di legno che funge da porta, un oggetto insolito e mai visto prima, riflette i raggi di un sole pallido che fatica a nascere e che attraversano una finestra fatta di plexiglass. Incuriosita da quella novità scosta le coltri polverose e infilati gli scarponcini di un paio di numeri più grandi si inginocchia davanti a quello strano marchingegno. Un telaio nero lucido, con alcune parti ammaccate in cui lo spesso smalto che lo ricopre è saltato. Al centro, ordinati in circolo, una serie di stanghette che terminano con dei segni in risalto e un nastro nero aggrinzito che corre da sinistra a destra arrotolato in due cerchi, anch’essi di metallo. Più in alto, un foglio bianco spiegazzato avvolto in un cilindro nero con una manopola e una leva lucente. Ma quello che l’attira di più è una serie di tasti rotondi neri, con simboli dorati al centro di ognuno di essi.
Con timore le dita sfiorano le superfici fredde, indugiano sui tasti cedevoli al tatto, esplorano i segni in rilievo sulle stanghette cromate. A che servirà mai questo strano oggetto? La testa inclinata di lato per vedere meglio, stringe tra le dita sporche la manopola attaccata al cilindro. Un piccolo movimento le suggerisce che può girare. Con una rotazione del polso gli fa compiere un mezzo giro, la carta avvolta su di esso gira assieme a questo. Interessante. Torna a fissare i tasti, collegati ad altre stanghette che si perdono all’interno dello strano congegno. Ne schiaccia uno. Tac. Il movimento fa muovere un’astina superiore che sbatte sul cilindro, imprimendo sulla carta il segno riportato alla sua estremità . Tac, un altro tasto schiacciato, un altro segno nero sul foglio bianco. Animato da una coscienza sconosciuta, l’indice della mano destra pigia altri tasti in sequenza, creando una melodia mai sentita prima. Martina osserva la sequenza di segni comparsi uno dopo l’altro sulla superficie porosa della carta. Come fatto prima, ruota il cilindro facendo scorrere verso l’alto il risultato del ticchettio. Con il polpastrello segue lentamente il testo ottenuto, con la mente legge con lo stesso ritmo il significato.
Â
m a r t i n a
Â
Una lacrima, nata dal profondo della sua anima, sgorga dal suo occhio e dopo aver tracciato una scia sul viso, si infrange sulla parola appena battuta. Mi chiamo Martina. Gli occhi leggono il suo nome, il pensiero lo conferma. D’improvviso, come se avessero vita propria, le dita cominciano a muoversi sulla tastiera premendo i tasti. Dapprima, con lentezza per poi aumentare il ritmo. Il carrello scorre a sinistra, portando con sé nuovi segni neri. Arrivata al margine della pagina, un tintinnio la blocca dal suo battere e senza sapere il perché, spinge la leva cromata posta a sinistra. Il cilindro ruota, trascinando con sé la cellulosa; il carrello torna nella posizione iniziale, le dita riprendono a pestare sui tasti per creare nuovo nero sulla pagina accompagnato da un suono sempre uguale. Una parola dopo l’altra, un tac dopo l’altro, Martina arriva alla fine del foglio. Il ticchettio finisce. Lo sguardo corre veloce su quelle lunghe righe nere impresse. Con un gesto deciso tira via la carta dalla vecchia Continental e con voce sommessa tremolante inizia a leggere quanto scritto. Il timore iniziale lascia via via posto a una voce sicura e felice, trascinando nel suo entusiasmo il fratellino ormai sveglio:
Â
Davanti a un gran bosco abitava un povero taglialegna che non aveva di che sfamarsi; riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hänsel e Gretel…