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LA PANCHINA ROSSA

2021-03-25 19:09

Sabrina Mills

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LA PANCHINA ROSSA

Tutte le mattine, prima di entrare a scuola, sostava sulla panchina rossa vicino all’entrata dell’istituto scolastico. Potevano essere pochi secondi o diversi m

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Tutte le mattine, prima di entrare a scuola, sostava sulla panchina rossa vicino all’entrata dell’istituto scolastico. Potevano essere pochi secondi o diversi minuti, a seconda di che ora fosse, ma erano comunque sufficienti per lui. Si sedeva, poggiava lo zaino a terra e osservava le sfumature delle foglie sugli alberi del parco dall’altra parte della strada. Federico aveva dieci anni e frequentava la prima classe della scuola media cittadina. Per la prima volta, fatto il salto dalla primaria alla secondaria, gli era stato consentito di raggiungerla a piedi; dalla finestra della cucina mamma Lucia lo aveva osservato al suo esordio; Federico era stato ligio alle raccomandazioni ricevute la sera precedente e ripetute quella mattina: non correre, guarda a destra e sinistra prima di attraversare, rispetta il semaforo. Erano solo duecento metri e la posizione della palazzina, posta proprio sull’incrocio, permetteva di vedere la scuola e il tragitto per raggiungerla, fino a che la sua sagoma perdeva definizione nei suoi occhi.

Quando lo aveva visto sedersi sulla panchina, Lucia pensò che fosse stanco o che volesse allacciarsi la scarpa e non ci fece troppo caso. Per tutta quella settimana, lei che aveva un part time e lavorava nel pomeriggio, controllò che il suo secondogenito raggiungesse la scuola senza problemi o tentennamenti. E per tutta quella settimana lo vide sedersi sulla stessa panchina rossa.

Ricordava bene il motivo di quel colore e il momento in cui era stata dipinta.

Federico aveva nove anni quando suo fratello Marco, più grande di quattro, si tolse la vita nella sua cameretta. Lo trovò lui, mentre lo cercava per giocare ancora assieme prima di cominciare i compiti. Non capì perché il fratello avesse il volto scuro e una sciarpa annodata al collo. Provò a chiamarlo senza ottenere risposta, poi si sedette a terra, slegò il tessuto e appoggiò la sua testa sulla spalla del fratello. Con un filo di voce, quasi a non volerlo svegliare, infine chiamò la mamma.

Marco se ne era andato così, in un pomeriggio primaverile fatto di colori caldi e di alberi in fiore. E nel paradosso delle vite che fioriscono ancora, la sua si spegneva per sempre.

Il biglietto lasciato sulla scrivania, vergato con la sua calligrafia incerta, consegnava scuse indicibili a mamma e papà per il gesto che avrebbe compiuto di lì a poco. Altre due righe per spiegarne la causa e la vergogna. L’ultima era stata per il fratellino, lasciato solo a giocare nel pomeriggio e senza la sua protezione.

La settimana dopo, su iniziativa della sua insegnante, quella panchina posta all’ingresso della scuola venne dipinta di rosso. E sulla vernice asciutta vennero apposti i nomi dei compagni e gli ultimi messaggi d’amore e di addio. Mai più bullismo. Questo il monito scritto in stampatello al centro.

La sua unica colpa era stata essere un bambino sensibile, più attento di altri a certi dettagli della vita. Marco era amico di tutti, compagne e compagni, non faceva differenza. Era delicato negli atteggiamenti e qualcuno lo aveva notato in quella scuola. Da quel giorno era diventato bersaglio di prese in giro e insulti sempre più mirati ai quali aveva risposto il primo periodo, per poi chiudersi in un silenzio fatto di consapevolezza. Come un tarlo, le offese martellavano la sua mente e la autostima costruita in quei pochi anni, fino a disintegrarla.

Un giorno Lucia chiese a Federico del perché sostasse sulla panchina prima di entrare a scuola. La guardò meravigliato, infine, seduto vicino a lei sul divano, le prese la mano e parlò. Le disse che su quella panchina sentiva la presenza del fratello e ne traeva la forza che lui non era stato capace di avere e che lo aveva portato a togliersi la vita. Con la maturità di un adulto nascosto nel corpo di un bambino di dieci anni, Federico parlò per diversi minuti di fronte alle lacrime della mamma. Raccontò delle volte che, all’uscita da scuola, si fermava ancora sulla panchina a parlare al vento del fratello, assieme ai suoi compagni. Quella stessa panchina che, con il tempo, diventò un simbolo di forza e coraggio per altri ragazzi vessati.

«Posso andare a vedere i cartoni adesso?»

«Vai, amore mio.»

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