
Il giorno era ormai fatto, visibile nei contorni definiti delle case antiche e nel tronco rugoso dell’imponente ulivo centenario della piazza centrale. Ezechiele Biffignandi era indaffarato a riempire il banco della sua macelleria, divenuto ormai troppo ampio per la sua esigua clientela. La sua vetrina poteva onorarsi della vista su quello che un tempo era il fulcro della vita del paese e ne costituiva il ritrovo per le passeggiate. Il ciottolato chiaro sul quale i bambini si rincorrevano e gli anziani si riposavano all'ombra della folta chioma verde scuro.
Con meticoloso ordine sistemò i diversi pezzi di carne secondo la razza. Il bovino a destra, rappresentato da un bel fesone di spalla richiesto dal vecchio notaio Bellazzi per il suo arrosto della domenica. In successione le carni suine fornite da suo fratello Geremia, le ovine e il pollame. Tutta carne locale allevata da amici e parenti, spesso venduta in barba alle più elementari norme di igiene sulla macellazione. Qualche ramo di alloro non proprio fresco ad abbellire le diverse tonalità di rosso e giallo. Un ultimo sguardo dall'alto alla disposizione e un colpo secco di canovaccio sul bancone. Maledette mosche! Erano il suo incubo nelle giornate calde. Le vedeva ovunque; poggiate sulla carne esposta, zigzagare in un eterno volo fino a trovare appoggio sulle sue tempie, mentre intento a servire un compaesano tentava di liberarsene con un movimento deciso della testa. Appesa al muro dietro il bancone c’era la friggitrice. Chiamava così la zanzariera elettrica che ogni tanto sfrigolava sopra la sua testa. Ogni ronzio era accompagnato dal suo commento: avanti un’altra. Macellaio da due generazioni odiava due cose nella vita. Le mosche che si facevano gioco di lui, e il suo nome. Discendente da una famiglia di epoca medievale, era figlio di madre dal carattere altero e profondamente religiosa. Il solo sentirlo pronunciare rievocava le prese in giro subite quando era bambino e più avanti ancora per tutta l’adolescenza. Poi queste cessarono, ma l’idiosincrasia cronica per il suo nome non lo lasciò più. Terminata l’esposizione, uguale a quella di ogni santo giorno mandato in terra, fece il giro del bancone per osservarla con gli occhi del cliente. Posto a circa un metro dalla vetrina stette in contemplazione. Un braccio al petto con la mano sotto l’ascella, l’altro ad accarezzare il mento barbuto con fare pensieroso. Un passo a destra per cambiare angolazione e due a sinistra. Soddisfatto dalla presentazione statica dei vari pezzi, superò il bancone ed entrò nel locale di lavorazione. Posti su un lungo tavolo in acciaio, inciso da innumerevoli solchi ellittici lasciati durante le operazioni di pulizia, la sua collezione di coltelli da taglio ordinata per dimensioni. Dalla lama lunga e sottile per disossare, alla mannaia napoletana pesante e squadrata. Acceso l’affilacoltelli fissato al tavolo, ripassò con pazienza certosina le lame di ogni singolo utensile, riponendolo nello stesso punto, prima di passare al successivo. Dlin dlon Lo scampanellio della porta lo colse con la mannaia sull'attrezzo acceso. Senza badare al campanello, continuò nell’operazione. «Buongiorno Ezechiele», era la vecchia Annina, la domestica settantenne del notaio Bellazzi. Una donnina alta un metro e poco più, con una crocchia di capelli canuti attaccata a una testa piccola e tonda. Udito il sibilo stridente del metallo sulla pietra alzò il tono della voce per attirare la sua attenzione. «Ezechiele!» Stizzito dal sentirsi nominare ancora strinse la mascella serrando i denti. La mano sopra il dorso dell’arnese spinse con più forza contro la mola in movimento. Uno sciame di scintille incandescenti si perse sulle cementine d’antan. «Arrivo! E che cazzo!» Sorpresa dal tono e dal contenuto triviale, la vecchia Annina, che a un passo dal prendere i voti fu costretta ad andare a servizio, si fece ancor più piccola. Dalle sue labbra piatte, sovrastate da una ragnatela di grinze parallele, prese il volo un sì appena sussurrato. «Eccomi. Ah è lei Annina, che le serve? Il solito?» Ancora salda nella mano destra la vecchia mannaia dal manico di acero, appartenuta al povero babbo e prima ancora alla buonanima del nonno. «Sì…se non è troppo disturbo, Ezechiele», era talmente chiusa in sé per il timore provato alla vista dell'arma impropria, che se avesse potuto sarebbe implosa lì sul posto. «Mi raccomando, Ezechiele, che non sia dura come l’ultima volta. Il notaio non ha più buoni denti come un tempo» Come un chiodo conficcato poco per volta, il suo nome pronunciato con ossessione spinse un bottone situato da qualche parte nel suo cervello. Con maestria fece roteare la vecchia mannaia con un gioco del polso. Lo sguardo fisso sul viso attonito della vecchia Annina, incantata dal luccicare del metallo. Con solennità innalzò il braccio poco oltre la sua testa, per poi lanciarlo contro la domestica impietrita. L’arma si conficcò in profondità nella fronte rugosa con un rumore sordo. La donnina cadde dritta sulla schiena, producendo un tonfo secco di ossa nell'impatto con il pavimento. Dal solco verticale una stilla di sangue diede il via a un rivolo dolciastro, che in pochi secondi creò un’aureola rossastra sotto il capo della vecchia Annina. Senza perdersi d’animo, Ezechiele Biffignandi abbassò la serranda e agguantata la vecchia Annina per le caviglie ricoperte da candide calze bianche, la trascinò sul retro. Impugnato il primo coltello sul tavolo d’acciaio lavorò alacremente per il resto della mattinata. Al momento della riapertura dell’esercizio i clienti poterono osservare meravigliati l’ampia esposizione che impegnava l’intero bancone.